Onorevoli Deputati! - Il presente disegno di legge è volto a ratificare e rendere esecutiva in Italia la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall'Assemblea generale con la risoluzione n. 58/4 del 31 ottobre 2003 ed aperta alla firma a Merida dal 9 all'11 dicembre 2003.
      Sin dal 15 settembre 2005, con il deposito dello strumento di ratifica della Convenzione in questione da parte dell'Ecuador presso il Segretariato delle Nazioni Unite, è stato raggiunto il quorum delle ratifiche statali necessarie per l'entrata in vigore della stessa, realizzatasi il 14 dicembre del medesimo anno.
      L'Italia, che pure fu tra i principali sostenitori della Convenzione, nonostante gli inviti formulati agli Stati Parte in numerose risoluzioni dell'Assemblea generale e in dichiarazioni politiche di alto livello, non ha ancora provveduto a ratificare lo strumento

 

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internazionale in questione, il quale rappresenta il primo accordo mondiale di contrasto alla corruzione come fenomeno transnazionale.
      Il presente disegno di legge, pertanto, si propone di ratificare la Convenzione di Merida, colmando un'evidente lacuna dell'ordinamento interno e apportando un significativo contributo nel mantenimento delle relazioni internazionali nell'ambito dei Paesi membri dell'Organizzazione delle Nazioni Unite.
      Con riguardo al precipuo contenuto del disegno di legge, occorre premettere che le attività di redazione dello stesso sono state improntate alla realizzazione di una proposta che fosse quanto più semplice e snella possibile, limitandosi quindi all'attuazione del solo contenuto obbligatorio della Convenzione e tralasciando pressoché del tutto le previsioni ad esecuzione facoltativa; la presa d'atto che la parte più significativa del contenuto facoltativo in questione era già stata recepita o era in corso di recepimento mediante altri strumenti normativi, nonché la necessità di procedere ad una ratifica quanto più rapida possibile del predetto strumento internazionale - sia per il ritardo ormai accumulato che per l'impellente esigenza di ultimare i lavori parlamentari entro la fine dell'anno in corso, allo scopo di presentarsi alla prossima riunione degli Stati membri, programmata per dicembre 2007, come partecipanti effettivi e non come semplici osservatori - hanno costituito, infatti, le linee guida nella redazione del presente disegno di legge.
      Nello specifico, gli articoli 1 e 2 recano, rispettivamente, l'autorizzazione alla ratifica della Convenzione di Merida e l'ordine di esecuzione della medesima.
      L'articolo 3 prevede l'adeguamento della normativa sostanziale alle previsioni dei titoli II e III della Convenzione; il vigente codice penale e la relativa normativa complementare già realizzano gran parte di dette previsioni, ma con riferimento all'articolo 16, paragrafo 1, della Convenzione, l'articolo 322-bis del codice penale non prevede la punibilità per il corruttore o l'istigatore che offra denaro o altra utilità a funzionari di organismi internazionali al precipuo fine di ottenere o mantenere un'attività economica o finanziaria. È stata, quindi, proposta una modifica del predetto articolo in tale senso con l'introduzione, al secondo comma, numero 2), anche di tale specifica finalità, con ciò rispondendosi appieno al dettato del citato articolo 16.
      Quanto all'articolo 31 della Convenzione in materia di «congelamento, sequestro e confisca» dei beni che costituiscono provento di delitti di cui alla medesima Convenzione, la nostra legislazione già consente il sequestro e la confisca nei casi ivi previsti; la stessa necessita, però, di adeguamento in relazione alla possibilità di effettuare la cosiddetta «confisca di valore», ovvero quella vertente su beni di valore equivalente a quello dei proventi da delitto. Detta confisca è consentita nel nostro ordinamento soltanto per alcuni reati, fra i quali i delitti di corruzione, mentre per il riciclaggio (articolo 648-bis del codice penale), oggetto dell'articolo 23 della Convenzione di Merida, la stessa è ammessa esclusivamente nei limiti dettati dall'articolo 11 della legge 16 marzo 2006, n. 146, ovvero nei soli casi in cui venga commesso un reato transnazionale ai sensi dell'articolo 3 della legge predetta («qualora sia coinvolto un gruppo criminale organizzato, nonché: a) sia commesso in più di uno Stato; b) ovvero sia commesso in uno Stato, ma una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo avvenga in un altro Stato; c) ovvero sia commesso in uno Stato, ma in esso sia implicato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato; d) ovvero sia commesso in uno Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro Stato»).
      Deve peraltro osservarsi come sia già stato presentato un disegno di legge volto all'introduzione di siffatto istituto con valore generalizzato per tutte le fattispecie di reato; nella legge comunitaria 2007, attualmente all'esame del Parlamento, è presente infatti una specifica disposizione che, in ottemperanza alla decisione quadro
 

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2005/212/GAI del Consiglio, del 24 febbraio 2005, delega il Governo alla redazione di una norma che consenta l'utilizzo di tale misura per ogni tipologia di reato.
      Il disposto degli articoli 12 e 21 della Convenzione, concernente la materia della corruzione nel settore privato, pur di significativo momento, è ad esecuzione facoltativa e, anche in questo caso, costituisce specifico oggetto della legge comunitaria 2007, sede nella quale è stata conferita delega al Governo per l'introduzione delle relative modifiche normative, in attuazione della decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio, del 22 luglio 2003.
      Tali ultime disposizioni non devono, pertanto, essere contemplate nel presente disegno di legge.
      L'articolo 4, in attuazione dell'articolo 26 della Convenzione, adegua, poi, la vigente normativa in tema di responsabilità delle persone giuridiche per fatto-reato al catalogo di reati previsto dall'intera Convenzione; anche in tale caso la normativa italiana appare all'avanguardia nell'ambito delle legislazioni internazionali e necessita soltanto di un piccolo intervento per ricomprendere anche il delitto di cui all'articolo 377-bis del codice penale (induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all'autorità giudiziaria) tra quelli che consentono di applicare alle persone giuridiche il procedimento previsto dal decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, per l'irrogazione di un'adeguata sanzione amministrativa. Le altre fattispecie di reato previste dalla Convenzione, infatti, già consentono a legislazione vigente l'irrogazione di specifiche sanzioni amministrative nei confronti delle persone giuridiche coinvolte, con l'unica eccezione dell'articolo 648-bis del codice penale; è già stato, peraltro, predisposto dal Ministero dell'economia e delle finanze - ne è prossima la presentazione al Consiglio dei ministri - uno schema di decreto legislativo volto a dare esecuzione alla cosiddetta «III direttiva antiriciclaggio» (2005/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 ottobre 2005), all'interno del quale è prevista l'introduzione della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche in relazione ai reati di cui agli articoli 648-bis e 648-ter del codice penale. Si ritiene, pertanto, che non sia necessario riprodurre una norma dal medesimo tenore anche nel presente disegno di legge.
      L'articolo 5 introduce due nuovi articoli nel libro XI, titolo IV, capo I, del codice di procedura penale; si tratta dell'articolo 740-bis, rubricato: «Devoluzione ad uno Stato estero delle cose confiscate», e dell'articolo 740-ter, rubricato: «Ordine di devoluzione».
      L'introduzione di tali articoli ha lo scopo di dare concreta ed effettiva esecuzione ad una delle parti più innovative della Convenzione in merito alla cooperazione internazionale: il cosiddetto asset recovery. In estrema sintesi, per effetto delle disposizioni previste dal titolo V della Convenzione, i beni specificamente indicati dall'articolo 31 della Convenzione stessa (proventi di uno dei reati che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione; beni, materiali e altri strumenti destinati o impiegati al fine della consumazione di tali reati) devono essere restituiti ai legittimi proprietari, anche nel caso in cui essi siano stati trasferiti all'estero. Per raggiungere questa finalità, gli Stati Parte sono soggetti a due obblighi di cooperazione: in primo luogo, devono prevedere la possibilità di dare esecuzione a richieste di sequestro e confisca dei beni previsti dall'articolo 31 della Convenzione; in secondo luogo, una volta eseguiti il sequestro e la confisca, devono prevedere la possibilità di restituire allo Stato che ne ha fatto richiesta quanto sequestrato o confiscato.
      Per quanto riguarda il primo obbligo di cooperazione, le disposizioni dettate dagli articoli 731 e 737-bis del codice di procedura penale già consentono alle autorità giudiziarie nazionali di svolgere indagini, di sequestrare e di confiscare i beni specificamente indicati dall'articolo 31 della Convenzione, su richiesta di uno degli altri Stati Parte.
      Per quanto riguarda la devoluzione allo Stato richiedente, l'articolo 740, comma 2, del codice di procedura penale subordina
 

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tale possibilità alla reciprocità. La disposizione non sembra compatibile con gli obblighi di cooperazione stabiliti dalla Convenzione in materia di asset recovery, che non prevedono alcun riferimento alla reciprocità.
      Sembra allora necessario introdurre una disciplina speciale, che introduca una sorta di doppio binario quanto ai presupposti della devoluzione: la reciprocità, nel caso in cui l'accordo internazionale nulla preveda, ovvero i requisiti stabiliti dall'accordo internazionale, nel caso in cui esso ne preveda. Per quanto riguarda la Convenzione, si tratta dei requisiti stabiliti dall'articolo 57.
      La sedes materiae più appropriata sembra quella degli effetti delle sentenze penali straniere (capo I del titolo IV del libro XI del codice di procedura penale), in quanto la devoluzione allo Stato richiedente, dal punto di vista logico e cronologico, costituisce l'ultimo atto del procedimento finalizzato al riconoscimento della confisca o del sequestro disposti dalle competenti autorità estere.
      Tre sono i princìpi fondamentali che ispirano la nuova disciplina della devoluzione allo Stato estero; in primo luogo, non può procedersi alla devoluzione senza il previo riconoscimento della sentenza o del provvedimento estero che ha disposto la confisca dei beni di cui all'articolo 31 della Convenzione. Tale principio trova riconoscimento nel nuovo articolo 740-bis, comma 2, lettera b), del codice di procedura penale; il procedimento e i presupposti del riconoscimento saranno gli stessi previsti dagli articoli 731, 733 e 734 del medesimo codice. In sostanza, gli articoli 740-bis e 740-ter del codice di procedura penale nulla innovano in materia, limitandosi a dettare disposizioni in merito alla devoluzione dei beni che sono stati oggetto di una sentenza o di un provvedimento riconosciuto secondo le disposizioni generali richiamate dall'articolo 740-bis, comma 2, lettera b), del medesimo codice.
      In secondo luogo, non può procedersi a devoluzione senza espressa richiesta in tale senso da parte dello Stato estero, ai sensi dell'articolo 740-bis, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale.
      Infine, ma non da ultimo, la devoluzione sarà ordinata contestualmente al riconoscimento della sentenza o del provvedimento estero che ha disposto la confisca (articolo 740-ter, comma 1, del codice di procedura penale). Dal combinato disposto degli articoli 740-ter, comma 1, e 740-bis, comma 2, lettera b), del codice di procedura penale, si può desumere che lo Stato estero dovrà richiedere la devoluzione dei beni previsti dall'articolo 31 della Convenzione contestualmente alla richiesta di riconoscimento della sentenza o del provvedimento di confisca dei medesimi beni. Si è preferito escludere la possibilità di una richiesta di devoluzione successiva al riconoscimento della sentenza o del provvedimento straniero di confisca, in considerazione della difficoltà di pervenire all'elaborazione di una soddisfacente disciplina dei beni già acquisiti al patrimonio dello Stato, per effetto della confisca, nelle more della presentazione della richiesta di devoluzione.
      A mente dell'articolo 740-bis, comma 1, del codice di procedura penale, la devoluzione potrà essere ordinata solo nei casi previsti dagli accordi internazionali in vigore per lo Stato. In questo modo, si è inteso rinviare alla deliberazione dei presupposti stabiliti dagli accordi in subiecta materia, presupposti che, per quanto riguarda la Convenzione, sono stabiliti dall'articolo 57. Si è scelto di non dettare alcuna disposizione codicistica integrativa o suppletiva, lasciando la disciplina ai singoli accordi internazionali che prevederanno la devoluzione, secondo il principio generale stabilito dall'articolo 696, comma 1, del codice di procedura penale.
      A questo proposito pare opportuno evidenziare che i presupposti per il riconoscimento della sentenza o del provvedimento estero di confisca, stabiliti in via generale dagli articoli 731, 733 e 734 del codice di procedura penale, non coincidono con i presupposti per la devoluzione. La competente corte di appello dovrà, pertanto, procedere in primo luogo a deliberare la sussistenza dei presupposti per
 

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il riconoscimento e solo in caso di accertamento positivo potrà verificare la sussistenza dei presupposti per la devoluzione.
      Le concrete modalità esecutive della devoluzione, una volta ordinata dall'autorità giudiziaria, saranno rimesse ad accordi diretti tra il Ministro della giustizia e le competenti autorità dello Stato richiedente, per ragioni di celerità ed efficienza.

      Con il disposto dell'articolo 6 si intende, inoltre, dare esecuzione alla previsione di cui all'omologo articolo 6 della Convenzione, laddove si prevede per gli Stati Parte l'obbligo di assicurare l'individuazione di uno o più organismi con specifiche funzioni e compiti nel campo della prevenzione della corruzione. Si è pertanto provveduto a designare quale autorità nazionale, ai sensi del citato articolo della Convenzione, l'Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito nella pubblica amministrazione, istituito dall'articolo 1 della legge 16 gennaio 2003, n. 3, e le cui funzioni, già conformi alle previsioni della Convenzione, sono state definite con successivo regolamento (decreto del Presidente della Repubblica n. 258 del 2004), garantendo all'organismo la necessaria «autonomia» ed «efficacia», nonché un'adeguata dotazione organizzativa. All'Alto Commissario, infatti, sono affidati incisivi poteri e ampie prerogative per la prevenzione della corruzione, sia attraverso lo svolgimento di indagini, anche di natura conoscitiva, tese ad accertare l'esistenza, le cause e le concause di fenomeni di corruzione e di illecito o di pericoli di condizionamento da parte di organizzazioni criminali all'interno della pubblica amministrazione, sia attraverso l'elaborazione di analisi e studi sull'adeguatezza e sulla congruità del quadro normativo, nonché delle eventuali misure poste in essere dalle amministrazioni per prevenire e per fronteggiare l'evolversi dei fenomeni oggetto di esame; inoltre, l'Alto Commissario ha competenza in ordine al monitoraggio delle procedure contrattuali e di spesa. Per questi motivi, per la ratifica ed esecuzione del titolo II della Convenzione, relativo alle misure di prevenzione, è sufficiente l'indicata designazione, senza necessità di conferire all'organismo ulteriori funzioni o compiti rispetto a quelli allo stato già riconosciuti. Peraltro, l'individuazione dell'organismo di cui all'articolo 6 della Convenzione, che espressamente attribuisce all'Alto Commissario la competenza generale ad attuare le politiche di prevenzione indicate a livello generale nel precedente articolo 5, esime dalla necessità di esplicitare ulteriormente i temi che rientrano nel focus dell'azione, che sono evidentemente tutti, ma non solo quelli, previsti nel capitolo in commento.

      L'articolo 7 prevede disposizioni per l'attuazione dell'articolo 46 della Convenzione; segnatamente ai sensi del paragrafo 13 del citato articolo viene individuato (comma 1) il Ministro della giustizia quale autorità centrale «con il compito e la facoltà di ricevere le richieste di assistenza giudiziaria ed eseguirle o trasmetterle alle autorità competenti per l'esecuzione», quindi, in sostanza quale punto di riferimento per le attività di assistenza giudiziaria transnazionale.
      Al comma 2 dell'articolo 7 viene specificato che, nel rispetto di quanto consentito dal paragrafo 14 dell'articolo 46 della Convenzione, le richieste di assistenza giudiziaria debbono pervenire già tradotte in lingua italiana, per evidenti ragioni di economicità e di rapidità nell'esperimento della relativa pratica; il comma 3 prevede, invece, l'attribuzione al Ministro della giustizia della facoltà di scelta consentita dal paragrafo 7 dell'articolo 46 e dall'articolo 57; il citato articolo 46 prevede che, nei casi in cui non siano stati stipulati accordi tra gli Stati Parte per la reciproca assistenza giudiziaria, si applichino le norme previste dalla Convenzione medesima, segnatamente dai paragrafi 9-29 del medesimo articolo 46. Dette norme, però, potranno essere applicate dagli Stati Parte anche qualora gli accordi internazionali sussistano ma non siano più attuali ovvero prevedano procedure meno rapide o efficaci di quelle indicate nel medesimo articolo 46; in tale caso, a norma del comma 3 dell'articolo 7
 

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del disegno di legge, la scelta in ordine all'applicazione dell'una o dell'altra procedura spetterà al Ministro della giustizia.

      Gli articoli 8 e 9 dettano, infine, disposizioni in relazione alla copertura finanziaria del presente disegno di legge e alla sua entrata in vigore.

      Le residue norme della Convenzione risultano tutte «self-executing» ovvero sono già attuate nel nostro ordinamento e non necessitano, pertanto, di specifiche disposizioni di attuazione per dispiegare appieno la loro efficacia; in particolare l'articolo 52 della Convenzione richiede l'adozione di un sistema di prevenzione dell'uso del sistema finanziario per scopi di riciclaggio di proventi da attività criminose, già previsto in Italia dalla normativa base costituita dal decreto-legge 3 maggio 1991, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 luglio 1991, n. 197, che ha recepito nel nostro Paese il sistema antiriciclaggio delineato dalla direttiva 91/308/CEE del Consiglio, del 10 giugno 1991 (cosiddetta «prima direttiva»). La stessa mirava a tutelare la credibilità e il corretto funzionamento dei sistemi finanziari dei Paesi membri, anche nel rispetto degli standard previsti dalle raccomandazioni del Gruppo d'azione finanziaria internazionale.
      Su questo concetto si basa la fissazione degli obblighi di collaborazione attiva che il citato decreto-legge n. 143 del 1991 (articolo 2, che sostituisce l'articolo 13 del decreto-legge n. 625 del 1979, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 15 del 1980, e articolo 3) ha posto a carico degli enti creditizi e finanziari, obbligandoli all'identificazione della clientela che effettua operazioni per importi superiori a 12.500 euro e di tutti i titolari di conti, depositi e altri rapporti continuativi, per qualsiasi importo, nonché alla registrazione e alla conservazione dei dati e delle informazioni relativi ai clienti e alle operazioni eccedenti la suddetta soglia. La registrazione va effettuata in un apposito archivio unico, con l'obbligo di conservare le informazioni ivi contenute per dieci anni e di segnalare di propria iniziativa alle autorità competenti ogni operazione sospetta che possa costituire indizio di un trasferimento, occultamento, conversione, dissimulazione o utilizzazione di proventi di attività criminose. Il sistema approntato prevede conseguentemente: disposizioni sanzionatorie, sia penali che amministrative, controlli nei confronti dei soggetti destinatari degli obblighi di collaborazione, ai sensi dell'articolo 5, comma 10, del citato decreto-legge n. 143 del 1991, nel cui ambito al Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza sono stati affidati compiti di vigilanza nei confronti di tutti gli operatori «non abilitati», e, infine, l'approfondimento delle segnalazioni di operazioni sospette attraverso il coinvolgimento dell'Ufficio italiano dei cambi, per l'analisi finanziaria, del citato Nucleo speciale di polizia valutaria e della Direzione investigativa antimafia, per i profili criminali delle comunicazioni.
      Al fine di garantire un più elevato livello di tutela del sistema finanziario, sia la citata prima direttiva che la seconda direttiva comunitaria, la direttiva 2001/97/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 dicembre 2001, hanno previsto la possibilità di ampliare la sfera di collaborazione dalle banche e dagli intermediari finanziari a una serie di professionisti e di categorie di imprese. In questa direzione, il legislatore nazionale ha dapprima esteso gli obblighi antiriciclaggio, con il decreto legislativo 25 settembre 1999, n. 374, a tredici tipologie di operatori non finanziari, poi ha riunito in un'unica cornice normativa, con l'approvazione del decreto legislativo 20 febbraio 2004, n. 56, tutti i destinatari attuali degli adempimenti di prevenzione, inserendovi anche i professionisti giuridico-contabili (notai, avvocati, consulenti del lavoro, ragionieri e commercialisti). Si tratta degli operatori che esercitano le seguenti attività ai sensi dell'articolo 1, comma 1, del citato decreto legislativo n. 374 del 1999: recupero di crediti per conto terzi, custodia e trasporto di denaro contante, titoli e valori a mezzo di guardie particolari giurate, trasporto di denaro contante, titoli e valori senza guardie particolari giurate, agenzie di affari in mediazione immobiliare, commercio
 

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d'oro per finalità industriali, case da giuoco, mediazione creditizia, agenzie in attività finanziarie, esercizio di case d'asta o di gallerie d'arte, fabbricazione, mediazione e commercio di oggetti preziosi, fabbricazione di oggetti preziosi da parte di società artigiane, attività di promotore finanziario. Su questo impianto normativo è intervenuto il legislatore comunitario con la direttiva 2005/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 ottobre 2005 (cosiddetta «terza direttiva»), che sostanzialmente ha impegnato gli Stati membri a rivedere l'impianto antiriciclaggio, per rafforzarlo con ulteriori vincoli e obblighi di collaborazione, nonché ad estendere anche al finanziamento del terrorismo le medesime cautele già adottate per prevenire il riciclaggio di denaro costituente provento di delitto.
      La direttiva comunitaria, coma già accennato, è in fase di recepimento sulla base dei criteri di delega contenuti nell'articolo 22 della legge n. 29 del 2006 (legge comunitaria 2005).
      Con riferimento a quanto previsto dall'articolo 58 della Convenzione, si rappresenta che l'articolo 151 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria 2001) ha previsto la costituzione dell'unità di informazione finanziaria, individuandola nell'Ufficio italiano dei cambi, per ottemperare al disposto dell'articolo 2, comma 3, della decisione 2000/642/GAI del Consiglio, del 17 ottobre 2000, concernente le modalità di cooperazione tra le unità di informazione finanziaria degli Stati membri per lo scambio di informazioni. In relazione, infine, alla problematica dello scambio di informazioni tra autorità degli Stati membri, si richiama l'attenzione sul regolamento (CE) n. 1889/2005 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 ottobre 2005, in materia di controlli sul denaro contante in entrata nella Comunità o in uscita dalla stessa, laddove, all'articolo 6, si prevede che «qualora indizi indichino che le somme di denaro contante sono connesse ad attività illecite, associate al movimento di denaro contante di cui alla prima direttiva 91/308/CEE [in materia di antiriciclaggio], le informazioni ottenute attraverso la dichiarazione di cui all'articolo 3 o i controlli di cui all'articolo 4 possono essere trasmesse alle autorità competenti di altri Stati membri». Il citato provvedimento comunitario entrerà in vigore il 15 giugno 2007.